ORARI DI APERTURA

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Lettera aperta ai lavoratori dell'API

All'indomani dello sciopero del 28 gennaio scorso e delle dichiarazioni di alcuni esponenti sindacali della raffineria API, sentiamo la necessità di prendere parte al dibattito che ne è scaturito, da falconaresi e abitanti di questo territorio denominato AERCA, da giovani lavoratori, per lo più precari, ricercatori e studenti “senza futuro”, da attivi partecipanti alle mobilitazioni che in questi mesi stanno scuotendo questo assopito Paese, non ultime le Marche.

Rivolgiamo questo appello, con rispetto, ai lavoratori e alle RSU dell'API,

dicendoci da subito disponibili a sostenere le legittime rivendicazioni di difesa

dei posti di lavoro nel loro comparto.

Venerdì scorso è stata una lunga giornata di lotta e democrazia:

abbiamo abitato i picchetti notturni davanti alle fabbriche jesine insieme alla FIOM, abbiamo assistito ad un corteo anconitano di migliaia di persone, colorato e variegato, la cui partecipazione eccedeva la natura stessa di sciopero di categoria; metalmeccanici da tutta la Regione (con percentuali di adesione alla sciopero che superano di molto la consistenza del sindacato di categoria che lo ha promosso...), precari, lavoratori della formazione, studenti, semplici cittadini, hanno percorso le principali vie del centro del capoluogo marchigiano ed hanno bloccato, insieme, gli accessi al Porto per l'intera mattinata.

Una risposta unitaria alla crisi, in linea con quanto successo nel resto del Paese, che non può che renderci un po' più ottimisti sul fatto che qualcosa possa ancora cambiare, che gli esiti di questa crisi generale e di sistema non siano poi così scontati, che c'è tanta voglia di partecipazione e discussione che non riesce a trovare espressione nei canali usuali e istituzionali della politica, e che costituisce la vera grande novità, e una possibile alternativa a questi tempi bui.

Gran parte del merito di questo risveglio va riconosciuto a quanto successo a Mirafiori, una storia che, se nel merito centra poco con la vicenda API, invece nel metodo ha per molti versi parecchie analogie.

Certo l'industria dell'auto e la chimica, la catena di montaggio e la raffinazione sono questioni diverse.

Certo forse qui manca l'arroganza di un Marchionne nel conculcare i diritti del lavoro (allo sciopero, alla rappresentanza democratica, alle pause lavorative, alla non obbligatorietà degli straordinari...) e nel colpevolizzare i lavoratori stessi quasi che fossero i responsabili della crisi aziendale e della loro stessa cassa integrazione, benchè l'esemplarità della vicenda FIAT sembra già promettere una radicale e generalizzata trasformazione delle relazioni industriali da cui nessun settore potrà dirsi esente...

Ma quello che ci pare simile è appunto uno stesso metodo, un modo di fare che si vuole imporre, quello del prendere o lasciare, quello del “ricatto”.

Come se ci fosse un solo modo di fare impresa, una verità assoluta che mal sopporta il confronto, non tollera mediazioni, che dall'alto del suo potere di investimento, dei suoi soldi, sbattuti in faccia a chi non ne ha e ne ha bisogno, si arroga il diritto di decidere per tutti, e sopra ogni cosa.

Come Marchionne può permettersi di ribaltare un cinquantennio di diritto costituzionale e del lavoro, così l'API, nel suo “piccolo”, da oltre cinque anni continua a non ottemperare e tentare di smantellare il piano energetico regionale, ostinandosi nel riproporre piani industriali in evidente antitesi con quegli indirizzi e fuori dalle regole.

Quasi che, proprio come Marchionne, la dirigenza API pretenda un “accordo separato”, credendosi in diritto di poter fare quanto agli altri comuni mortali non è permesso.

E come corollario a questa politica del ricatto, si usano le “proprie” fabbriche come caserme, in uno scontro per la competizione totale contro chi costituisce il fuori, il nemico da vincere. Un ricatto che ricade tanto sui lavoratori quanto su un intero territorio, che ha già deciso di cambiare.

Semplicemente ci chiediamo quante energie, risorse, opportunità, e posti di lavoro sono andati sprecati in questi anni di muro contro muro e perchè i vertici aziendali dell'API si ostinino nel non prendere in considerazione le possibili alternative già da tempo percorribili.

Mentre il PEAR incentiva energie rinnovabili, risparmio energetico e generazione distribuita nei distretti industriali (e dati alla mano con un riscontro oggettivamente positivo in appena cinque anni di applicazione), l'API ripropone, da cinque anni, grandi impianti concentrati e inquinanti legati all'uso di fonti fossili, che ci mantengono dipendenti dal mercato globale e dalle sue fluttuazioni finanziarie.

Non bastano, a seppellire questa semplice evidenza, interpretazioni ideologiche e faziose come quelle che confondono una “riconversione” in “polo energetico ambientalmente avanzato” con la costruzione di una megacentrale da 580 MW oltre alla già esistente e alla raffineria, o la produzione di “energia pulita”con i processi di combustione a ciclo combinato di gas metano e derivati dei processi di raffinazione.

Non basta agitare lo spettro della crisi dei posti di lavoro, senza riconoscere che allo stato attuale una centrale elettrica, come un rigassificatore off-shore, necessitano di scarsa manodopera e non possono competere con i posti di lavoro creati dal mercato delle rinnovabili, uno dei pochi settori produttivi in cui anche l'Italia eccelle in Europa, e che non risente della crisi attuale.

Nè possiamo non segnalare come l'API, che pure altrove investe in questo settore, abbia deciso di sacrificare questo territorio, e i suoi lavoratori, in operazioni più rischiose, meno innovative e probabilmente anche più costose.

La curiosa interpretazione di alcuni, in voga in questi giorni, ossia che le megacentrali andrebbero a sostituire e riconvertire la dismissione della raffineria, non ci risulta sia sostenuta in nessun documento ufficiale, e se così fosse, ci permettiamo di osservare che probabilmente i posti di lavoro garantiti sarebbero anche inferiori agli attuali.

Questi i fatti che abbiamo maturato in anni di attenzione sulla vicenda. Sui quali siamo disponibili con chiunque a confrontarci e, non avendo nessuna bandierina della politica da difendere, eventualmente riconsiderare.

Certo possiamo solo immaginare quanto sia difficile oggi lavorare in raffineria, sotto il ricatto della paura per le condizioni di sicurezza, per la continuità del reddito, per il mantenimento del posto di lavoro. Ci vuole coraggio nel mettere in discussione un piano industriale verso cui i vertici aziendali non offrono alcuna alternativa.

Ci vorrebbe quel coraggio che nasce dalla consapevolezza di non essere soli.

Quel coraggio che è possibile, come dimostrano i lavoratori di Mirafiori, e tutti quelli che qui ed ora, hanno deciso di provarci a non dargliela vinta.

La forza di quella resistenza al ricatto, crediamo, sia stata quella di difendere il posto di lavoro, senza barattarlo con la sua dignità e con i diritti che in decenni di lotte questo Paese si è conquistato; quella di eccepire che il lavoratore, come il sindacato, è parte dell'azienda non solo quando con il proprio salario differito nei fondi privati consente a Marchionne di continuare a giocare in Borsa e nell'alta finanza, ma anche quando si permette di discutere del come e del cosa produrre: ha senso produrre a Mirafiori Suv per miliardari americani in tempi di crisi e mentre gli USA stessi scommettono sull'auto elettrica per il 2015?

L'esemplarità di quel coraggio, di quella resistenza al ricatto ha permesso a molti di identificarsi e rispecchiarsi in quella vicenda particolare, ma che sapeva parlare a tutti.

Ha permesso ciò che fino a prima sembrava impossibile: che operai della grande industria e semplici cittadini, che insegnanti e studenti, che lavoratori dipendenti “garantiti” e precari, potessero ritrovarsi insieme, uniti contro la crisi.

Questo seme sta oggi germogliando e riproducendosi, contro il ricatto di chi vorrebbe imporre sacrifici e austerità a chi già la crisi la paga da un pezzo.

Tutti insieme, uniti, dovremo trovare il modo di parlarci, di saper trovare il comune oltre le differenze, di mettere in discussione questo pensiero unico che sottende la questione API e ci tiene tutti divisi e più deboli.

Dovremo trovare il modo di coltivare quel seme anche a Falconara, nella coscienza che l'incomunicabilità che separa chi sta fuori e chi sta dentro il petrolchimico è la sola arma che continua a far ingrassare chi sta sopra gli uni e gli altri.

Tutti uniti contro la crisi!

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