Ma è forse indispensabile precisare che nella città l’esperienza spaziale parte dalle caratteristiche costituite dall’abitazione, nei suoi interni e negli esterni, si dilata fino alla configurazione del quartiere di residenza ed arriva ad interessare il rapporto globale fra il cittadino e l’intero spazio “città”. Come dire: la disuguaglianza tra larghi e stretti ha una fenomenologia articolata. Riguarda in primo luogo l’appartamento, la casa di residenza, ovvero la possibilità di poter disporre di spazi adeguati, per vivere, per studiare, per giocare, per stare da soli o insieme ad altri. In secondo luogo è determinata dalle caratteristiche dell’ambiente prossimo, il quartiere, il rione che può essere figlio di una programmazione volta ad assicurare la tutela di tutte l’esperienze e le modalità di vita presenti nel territorio, o al contrario nasce per corrispondere alla ben nota tipologia dei quartieri ghetto, i quartieri della speculazione edilizia, zone di confine in cui gli stretti non mancano di farvi parte. Infine dipende dalla “padronanza” che il singolo individuo è in grado di conseguire rispetto all’intreccio complessivo degli spazi cittadini, una padronanza che non deriva soltanto da motivazioni tecnico-operative (i percorsi quotidiani casa/scuola/lavoro) ma dal livello socio-culturale raggiunto. In definitiva la categoria dello spazio non va letta esclusivamente nelle sue componenti “fisiche”, ma anche, diremo soprattutto in quelle sociali e culturali, ugualmente in grado di produrre radicali diseguaglianze. Diseguaglianze che portano molti a ricostruirsi uno schema di confini, stabilire caso per caso dove comincia e dove finisce la sua città.
Il secondo “lineamento” riguarda la dimensione del tempo. Anche in questo caso la realtà della diseguaglianza può essere letta sotto numerosi profili. Per esempio il tempo di cui intere categorie sociali non possono usufruire per poterlo utilizzare secondo propri progetti consapevoli verso traguardi e modi scelti e controllati direttamente.
Esso rappresenta indubbiamente l’affermazione di una nuova libertà per chiunque si ribelli alla vita del solo-obbligo. In questo menzioniamo il tempo della “memoria” distribuito anch’esso in maniera diseguale: ad alcuni è concesso ad altri è negato. Lo interpretiamo come la capacità di costruire un’immagine/rappresentazione di sé nel tempo (passato e nel futuro). Quanti oggi vivono in una situazione di ”defuturizzazione” e di estraneità al contesto urbano?!
La città è in grado di essere nello stesso tempo, ma per fasce di individui diversi, ambito di massima affermazione o di massima negazione del diritto al tempo e del diritto allo spazio, in un contesto socio-culturale, tra l’altro, in cui l’avvenuto o il mancato riconoscimento di questi diritti assume un significato di demarcazione e quindi indica la misura per cui un individuo o è dentro o è fuori..
la città trincea
Ogni giorno riscontriamo un ambiente di vita fatto prevalentemente di intolleranza e sopraffazione. Ogni giorno la crisi che invade ormai anche l’ambiente sociale costringe ad utilizzare strategie di attacco e di difesa nei confronti dell’altro, individuato come ostacolo e limite: sempre come nemico e mai come interlocutore.
Questo è il ritratto della città “trincea”, quella del cittadino marginale e subalterno, del cittadino non “iscritto”, condannato alle peggiori degenerazioni del nostro stato sociale. E come tutti i condannati è lasciato solo, in balia di controparti sconosciute ed inavvicinabili. La città stessa come ambito di elaborazione permanente ovvero come laboratorio in cui vengono sperimentate sempre nuove diseguaglianze… Assistiamo come la paura venga assunta come struttura fondamentale della sua identità. A giustificazione di ciò si innalzano muri, si ridefiniscono i confini interni delle nostre città, si creano le condizioni per cui diventa normale formulare minacce ed intimidazioni nel confronti di chi viene reputato diverso.
Diverso da chi e da che cosa? Si generalizza il controllo e la repressione poliziesca. E noi sappiamo bene che allorché si rafforzano l’ideologia e le pratiche sicuritarie, a pagarne il prezzo più alto sono i migranti, i profughi, gli “estranei”, additati come fonte di insicurezza. Ogni giorno apprendiamo di rastrellamenti, di incursioni notturne negli alloggi degli stranieri, di dinieghi arbitrari del rinnovo dei permessi di soggiorno, di negazione del diritto d’asilo e soprattutto di rimpatri collettivi che sono in realtà deportazioni, proibite com’è noto dalla Convenzione di Ginevra, attuate perfino nei confronti di profughi provenienti da zone di conflitto.
L’attuale proposta legislativa del pacchetto sicurezza prende ispirazione dalle ideologie segregazioniste con l’intento di ridurre i migranti a mera forza lavoro “usa-e-getta”, sottoposta a un sistema di diritto differenziato: di fatto ci porta all’apartheid. Solo così potremmo “ ritornare” a sentirci sicuri …questo è quello che vogliono farci credere!
È importante però riconoscere che non solo i migranti vengono colpiti da questi dispositivi di controllo ma tutti siamo dentro lo stesso bersaglio. Per tutti sono in gioco gli spazi di democrazia e quindi il futuro stesso del nostro paese (si pensi ad es. alle ronde).
Perchè c'è bisogno di un osservatorio...
Se osserviamo la città di Ancona ci rendiamo facilmente conto che il porto è sempre stato considerato dagli stessi abitanti come parte integrante della città, non la sua continuazione. Il porto coincide con la città stessa. Oltre ad essere il luogo da cui una considerevole parte della popolazione ne trae profitto grazie all’offerta lavorativa (7500 il numero dei dipendenti, cifra in cui è incluso anche l’indotto), è da sempre veicolo di scambio e di attraversamento sia dalla città verso l’esterno e viceversa, sia tra i cittadini stessi.
Vogliamo ricordare che l’intera area portuale ha sempre rappresentato, in termini di opportunità, una risorsa inestimabile per la città: qui ci si incontrava, si stava insieme, si passeggiava lungo le banchine ammirando le navi crociera o i traghetti che prendono il largo, si vedevano stupire i bambini curiosi che osservavano il varo di una nave o la sua costruzione…
Tutto questo ora c’è stato tolto in nome delle leggi sicuritarie, in nome di indicazioni internazionali che pretendono di fare adottare ai porti così come agli aeroporti sistemi di alta sorveglianza contro possibili incursioni terroristiche, insomma ci stanno privando di uno dei nostri beni comuni. In realtà le reti non garantiscono una maggiore sicurezza ma risultano anzi pericolose perché chiudono ogni possibile via di fuga in caso si verifichi un incendio o incidente sulla banchina e perché mettono a repentaglio la vita di coloro che cercano di superarle. Va inoltre sottolineato che sono poste in un’area Schengen che per definizione non dovrebbe avere barriere.
Ora è vietato l’attraversamento e la sosta pedonale a chi non è in possesso di un biglietto d’imbarco e, per chi proviene dal mare, l’uscita è possibile solo passando attraverso tornelli ed è rigorosamente sorvegliata da apposite telecamere e da uno scanner che rileva, attraverso la temperatura corporea, la presenza degli immigrati dentro i camion.
Cos’è diventato oggi il porto? Un confine interno: le sue reti e le sue barriere che sovrastano e delimitano l’intera area hanno ridefinito il disegno urbano della città.
È l’ennesima zona rossa al servizio di chi detiene il potere politico ed economico del nostro paese e che “usa” la scusa del terrorismo per creare un nuovo confine e sbarramento a chi cerca di entrare disperatamente in Italia in condizioni totalmente disumane nei tir che partono dalla Grecia o dall’area balcanica.
È ormai consuetudine quotidiana l’arrivo di immigrati, prevalentemente Afgani, che vengono trovati dentro celle frigorifere, oppure sdraiati tra lastre di marmo o aggrappati al semiasse dei camion. La maggior parte di questi sono profughi anche minorenni la cui cura da parte delle autorità competenti viene quasi sempre negata in nome del tempo. Esso è una delle principali condizioni dei respingimenti. Tutti gli accertamenti devono essere fatti entro l’orario in cui la nave deve ripartire per riportare indietro gli immigrati che sono stati trovati dai controlli a effettuati a campione.
Anche l’inattendibile esame radiografico, che dovrebbe verificare la minore età dell’immigrato, ha un canale privilegiato nelle corsie dell’ospedale Salesi dal momento che non si può ritardare la partenza della nave e che le autorità devono assicurare che sia stata rispedita indietro più gente possibile, indipendentemente dalle loro condizioni fisiche e indipendentemente dalle loro richieste.
Tutto ciò è veramente drammatico considerato che le migliaia di persone che fuggono verso l’Europa sono considerate solo come portatrici di insicurezza, pericolosità ed illegalità. Non è sicuramente lo stesso approccio che si tiene con i governi dei paesi di provenienza, anzi si continuano a studiare strategie economiche per valorizzare le risorse presenti in queste aree per l’importanza strategica che rivestono. “Le Marche rafforzeranno il loro legame con l’Europa”, così si legge nei giornali locali, “quattro linee d’intervento: tra i progetti un elettrodotto sottomarino tra Italia e Montenegro. Queste le dichiarazioni della Presidenza italiana della IAI (Istituto Affari Internazionali). Ed è proprio in virtù di queste condizioni che definiscono l’Adriatico e lo Ionio area strategica per gli investimenti finanziari e del rafforzamento dei “progetti di esternalizzazione delle frontiere con maggiore garanzia di sicurezza”, che vogliamo porre il nostro lavoro per esigere che la porta verso l’Oriente si apra ai bisogni delle persone che decidono di andarsene dal proprio paese, che ne riconosca i loro diritti e predisponga strutture di accoglienza e non di respingimento. Il nostro Osservatorio è per tanto, uno strumento autonomo ed indipendente che vuole ridare protagonismo ai cittadini , alle associazioni presenti sul territorio, e l’autorevolezza nell’intervenire là dove invece ci dicono che siamo estranei, dove ci dicono che c’è già qualcun altro che se ne occupa… Noi rivogliamo il nostro porto, il nostro mare e soprattutto vogliamo garantire il riconoscimento delle vite che lo attraversano.
Ambasciata dei Diritti - Marche
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