ORARI DI APERTURA

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1. AUTONOMIA E “SABOTIERS

L’autonomia non è una posizione di principio ma una condizione materiale dei movimenti e del conflitto. La nostra idea di autonomia è quella di uno spazio dell’agire calato nella realtà concreta, un “essere nel presente” sottoposto alle pressioni di una realtà globalizzata e globalizzante. E’ proprio da questo legame inscindibile tra l’idea di autonomia ed il nostro “essere nel presente” che nasce la problematica fondamentale di ogni ragionamento sugli spazi autonomi dell’agire e, cioè, l’individuazione delle loro coordinate all’interno di una realtà fortemente dinamica, dove il comando si serve di regole variabili ed il controllo utilizza strumenti di penetrazione storicamente inediti. Come possiamo trovare delle costanti del nostro “essere autonomi” senza, tuttavia, farci immobilizzare da categorie fisse, da automatismi interpretativi che rischiano di sclerotizzare la nostra azione, rendendola intempestiva e inefficace? Quale paradigma dell’autonomia può oggi rappresentare nel contempo il bisogno di riconoscersi e la necessità di mantenersi dinamici, l’ “essere altro” e la necessità di un’interazione costante, poliedrica e multiforme con la realtà materiale che vogliamo trasformare? Senza voler anticipare nulla della discussione che faremo, ci sembra che sia possibile fissare da subito un punto di partenza: non esiste autonomia dove non si produce in forma potenziale o conclamata un “rischio crisi”, dove non emergano, quantomeno sotto il profilo delle prospettive, tensioni di destabilizzazione dell’esistente. In altre parole potremmo dire che non esiste autonomia dove non esiste una prospettiva di “sabotazione”, intesa come produzione di una disfunzione nei meccanismi di riduzione al controllo e come capacità politica di ostacolare i piani di espropriazione delle decisioni sui territori. I sabotiers erano gli artigiani francesi che realizzavano i sabots, zoccoli indossati dai lavoratori ed inaspettatamente trasformati da ordinario capo di abbigliamento in strumenti di sabotaggio. Il problema della nostra autonomia è principalmente il problema della realizzazione dei nostri sabots, dell’individuazione e della scelta di quella prospettiva dell’agire capace di mettere insieme la costante con le variabili, dove la costante è la produzione di crisi e le variabili sono le azioni/relazioni di volta in volta messe in campo. D’altra parte è proprio sulla costante ricerca della produzione di crisi nei dispositivi del potere che si fonda l’insanabile differenza tra i nostri percorsi (autonomi) e quelli di chi, pur agitando la retorica dei diritti e dei bisogni sociali, risolvono la loro azione all’interno di un paradigma che si colloca all’esatto opposto e, cioè, quello della governabilità o, comunque, della equilibratura del quadro istituzionale. Le stesse esperienze che alcune nostre realtà hanno messo in campo nelle locali consultazioni amministrative vanno riviste e reinterpretate. Non si tratta, infatti, di realizzare qualche “incursione” nel campo avversario e neppure di costruire “nessi amministrativi”, che, se svincolati da una dinamica conflittuale molto più complessa e ampia, rischiano di rovesciarsi in forme di responsabilizzazione: si tratta, piuttosto, di misurare quante e quali potenzialità di “sabotazione” del quadro politico-istituzionale-partitico e del suo intreccio con le Spa di turno, possano essere agite in un determinato contesto territoriale, abbandonando simili percorsi quando tali potenzialità non esistano o non siano proporzionate al livello del conflitto in atto. E’ ancora una volta l’elemento della “sabotazione”, come produzione di crisi, in questo caso misurato sul quadro politico-istituzionale, a differenziare irrimediabilmente alcune nostre sperimentazioni dai percorsi di chi, in continuità con la cultura novecentesca del “partito di massa”, ritenendo di poter condizionare in senso “proletario” nuovi aggregati partitici, finisce con il collaborare all’ennesima quadratura del cerchio istituzionale ed al suo costante tentativo di stabilizzazione.

Ma al di là di quelle che possono essere alcune nostre chiavi di lettura, resta comunque il fatto che sono le stesse trasformazione indotte dalla guerra globale a premere per l’affermarsi di un nuovo ius bellico all’interno del quale ogni pratica dell’autonomia ed ogni dinamica reale del conflitto vengano codificate come “sabotaggio”, come azione delegittimata in sé, non perché “violenta” o “illegale”, ma semplicemente perché produttrice di un rischio crisi.

2. “SICUREZZA” RESISTENZA E LUOGHI DELLA RESISTENZA: IL NUOVO "IUS BELLICO"

Negli ultimi mesi la propaganda sulla “sicurezza” ha subito un’intensificazione senza precedenti, sfociando addirittura in una gara giornaliera all’invenzione più repressiva, dove anche le proposte più astruse ed improbabili hanno trovato piena cittadinanza come contributi alla riformulazione del fondamento culturale e giuridico del controllo sociale. Alla potenza della propaganda cosiddetta securitaria, ha corrisposto una critica debole e disorientata, costantemente avvitata intorno a concetti ed interpretazioni che non sono in grado di cogliere la radice più profonda del fenomeno. La critica più ricorrente è stata quella di accusare il centro-sinistra di rincorrere il centro destra nell’accaparramento della rendita elettorale legata alla tematica della sicurezza ed i concetti più utilizzati nella descrizione del fenomeno sono tutti riconducibili all’idea di una “svolta securitaria” sostenuta e legittimata da un “nuovo emergenzialismo”. Si tratta di una lettura a nostro avviso limitata che, generalizzando alcuni aspetti parziali, finisce con il ridimensionare quanto in realtà sta accadendo. Se è vero, ad esempio, che esiste una competizione elettorale sul tema della sicurezza è altrettanto vero che i “piani sulla sicurezza” (vedi Bologna) e le principali modifiche normative passano con indisturbati accordi trasversali tra i due schieramenti. Definire quanto si sta verificando una svolta securitaria, se può andar bene nella semplificazione del linguaggio quotidiano, risulta però fortemente riduttivo sul piano dell’analisi. L’emergenzialismo che abbiamo conosciuto nella seconda metà del secolo scorso trovava la sua giustificazione ideologica nella necessità di difendere l’ordinamento esistente da un pericolo che, nonostante tutto, veniva rappresentato come transitorio e socialmente localizzato: la legislazione di emergenza doveva essere una parentesi nell’ordinamento giuridico “democratico”, destinata a chiudersi una volta scongiurato il pericolo. Il fatto che la legislazione di emergenza abbia poi prodotto modifiche permanenti nell’ordinamento giuridico non cambia le caratteristiche di fondo del paradigma culturale e politico con il quale il potere ha sostenuto e legittimato l’emergenzialismo degli anni “70. Oggi siamo di fronte ad un fenomeno radicalmente diverso. Lo stato di guerra permanente presuppone un pericolo permanente e diffuso che deve essere affrontato con una modificazione genetica dell’ordinamento e dei dispositivi normativi. Nessuno degli attori della propaganda securitaria ha parlato di “parentesi” o di soluzioni “temporanee”, al contrario si è parlato di sicurezza come nuova infrastruttura, dell’estensione dell’incarceramento come gestione ordinaria del controllo e della repressione come meccanismo incondizionato ed incondizionabile dalle “attenuanti” delle contraddizioni sociali. Quando Veltroni dice che bisogna smettere di distinguere tra micro-criminalità e macro-criminalità, dando avvallo ideologico alla persecuzione dei lava-vetri, introduce un elemento che, seppur poco credibile sotto il profilo fattivo, pone l’esigenza di una modifica radicale, di un cambio di prospettiva generale nei fondamenti dell’ordinamento. Tutto ciò ci porta a pensare che non siamo difronte ad una “involuzione” autoritaria, ma ad una trasformazione genetica degli ordinamenti interni, chiamati a sintonizzarsi rapidamente con il contesto globale della guerra. In realtà ciò che si sta verificando nel nostro Paese è un’interfaccia di quanto si sta verificando nello spazio interno degli altri Paesi dell’Europa e del Nord America e nello spazio esterno dell’ex diritto internazionale: l’emergere progressivo di un nuovo “ius bellico”, un diritto di guerra calato nelle specificità del presente come dispositivo normativo permanente, chiamato ad omologare gli ordinamenti interni ed a gestire, con la semplificazione repressiva tipica dello “ius bellico”, la complessità del dominio globale. Importanti segmenti dello ius bellico dell’epoca della guerra globale sono già operativi ed è proprio la logica dello ius bellico che trasforma il lava-vetri in un criminale, l’occupazione di uno spazio in una rivolta da sedare subito con lo sgombero e le rotte seguite dai migranti in altrettanti campi di battaglia da disseminare di campi di concentramento. La nostra stessa quotidianità è oramai condizionata dal diritto di guerra: i divieti imposti negli orari notturni (vedi Bologna), la progressiva limitazione del diritto alla libera circolazione delle persone, l'estensione della detenzione "amministrativa", le disposizioni sul disciplinamento degli stadi (con l'obbligo di comunicazione preventiva alla Questura del contenuto degli striscioni), il proliferare delle telecamere nelle città, la proposta di schedatura genetica, la restrizione della garanzie di difesa e delle alternative al carcere, il superamento dell'idea di certezza del diritto a vantaggio di ipotesi di reato sempre più elastiche ed adattabili alle necessità repressive, non sono storture dell'ordinamento, ma teste di ponte della sua rapida trasformazione. Una trasformazione in cui la critica è ammessa solo come sfera nettamente separata non solo dalle decisioni, ma anche dal semplice tentativo di modificarle: quando la critica invade il campo materiale delle decisioni, allora diventa immediatamente "violenza", "illegalità", "crimine", in ultima analisi "sabotaggio".

Le profonde trasformazioni in atto, veicolate con il cavallo di Troia della sicurezza, pongono la necessità di un ragionamento più complesso ed articolato sulla tematica della resistenza e dei luoghi della resistenza. Nella discussione che faremo sul punto crediamo sia importante dedicare parte della riflessione ad una rivisitazione dell'esperienza rappresentata dai Centri Sociali Autogestiti. Volgendo un momento lo sguardo alle nostre spalle è impossibile non cogliere la peculiarità di un'esperienza che nonostante gli anni trascorsi, mantiene una vivacità straordinaria. Il fatto che i Centri Sociali Autogestiti, seppur tra mille limiti e contraddizioni, abbiano attraversato l'ultimo ventennio senza perdere complessivamente la capacità di aggregazione da un lato, e la propria "autonomia" dall'altro, rappresenta senza dubbio un'anomalia tutta da indagare e, soprattutto, da mettere a valore nelle nuove prospettive del tempo presente.

3. DEMOCRAZIA, TERRITORIO E REDDITO DI CITTADINANZA

La radicalità del conflitto che negli ultimi tempi ha caratterizzato l'opposizione alle cosiddette "grandi opere" di devastazione ambientale e sociale, rappresenta un altro asse portante della nostra riflessione. Ovunque tale conflitto si sia determinato, la difesa del territorio ha portato inevitabilmente con se alcuni elementi che riteniamo prioritari nell’impostazione della discussione:

1) Salvaguardare il territorio e le comunità che ci vivono porta il conflitto a debordare dal contesto ambientale per investire direttamente il problema della "decisione", il "come" ed il "chi" decide del nostro destino, della nostra vita individuale e collettiva, presente e futura. Da questo punto di vista, per quanto riguarda il nostro territorio, il caso della Quadrilatero è emblematico. La Quadrilatero non è solamente una grande speculazione: la Quadrilatero è molto di più, è la cattura, oggi, del valore che la cooperazione sociale produrrà domani, è il trasferimento dei poteri all'interno dei consigli di amministrazione delle società per azioni, è la fine brusca dell'illusione storica del cittadino chiamato in qualche forma a concorrere alle decisioni sul futuro della propria comunità.

2) Le difficoltà prodotte dall'opposizione sociale alla realizzazione delle opere, determinano effetti generalizzati, che travalicano la situazione locale sia dal punto di vista dei movimenti, sia dal punto di vista dei grandi interessi dominanti: ogni punto di resistenza in grado di bloccare o rallentare la realizzazione delle opere produce ripercussioni diffuse, si trasforma nel sabot immesso in un ingranaggio immensamente più grande.

3) La tematica dei “beni comuni” tende ad allargarsi e può assumere nuovi orizzonti. Da questo punto di vista crediamo che sia importante riflettere non solo sulla loro difesa, ma anche sulla loro riappropriazione, sulle modalità con le quali possiamo rivendicare la riassunzione alla sfera sociale dei beni che ci sono già stati alienati, formalmente o in via di fatto. La necessità di ragionare sulle forme di riappropriazione dei beni comuni nasce anche dalla necessità di rompere la sovrapposizione tra l’idea di “comune” e quella di “Stato” che ci imprigiona in una falsa dialettica senza uscita tra privatizzazione e statalismo. Se è facile immaginare che la difesa dei beni ancora formalmente pubblici tenderà a concentrarsi nell’opposizione al passaggio dei poteri dallo Stato alle Spa, è possibile, però, individuare nella tematica della riappropriazione dei beni comuni già privatizzati un ampio terreno di sperimentazione di nuove dimensioni della sfera pubblica che riporti direttamente nel sociale la sovranità sui beni che ci sono stati espropriati. Crediamo inoltre che sia importante ricomprendere nella categoria dei “beni comuni” anche il diritto al reddito di cittadinanza, promuovendo una saldatura tra i due campi di intervento a nostro avviso possibile sotto un duplice profilo. Da un lato, infatti, il diritto al reddito di cittadinanza si configura come un diritto di “tutti” ai mezzi necessari per vivere e, quindi, per sua natura fondato su un quantum di risorse disponibili: diritto e risorse rappresentano un insieme inscindibile ed è appunto questo insieme che assume in sé tutte le caratteristiche del “bene comune”. Dall’altro, se è vero che la privatizzazione dei beni comuni è anche espropriazione di ricchezza ed impoverimento della collettività e dei singoli individui, è evidente che la sorte dei beni comuni incide direttamente, sotto il profilo strettamente materiale, sul diritto di accesso alle risorse dei singoli individui e quindi, in ultima analisi, su una componente significativa dello stesso reddito di cittadinanza.

SABOT 2007 SI TERRA’ PRESSO IL CSA TNT DI JESI

(Via Politi, vicino alla stazione delle FS)

L’INIZIO DEI LAVORI E’ PREVISTO PER LE ORE 10,30.

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