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Stato di Transizione

Nel volgere di pochi mesi il tema della transizione ecologica è dilagato. Capi di governo, istituzioni internazionali, organismi europei, giornalisti, studiosi, piani economici, come in una grande orchestra a cui è stato improvvisamente consegnato uno spartito dimenticato in qualche cassetto, hanno iniziato a suonare la stessa sinfonia. Draghi ha persino messo nel suo governo un musicista ad hoc, titolare di un ministero che ha proprio quel compito lì, quello di realizzare la “transizione ecologica”, quasi come se si trattasse di bonificare qualche terreno paludoso. La repentinità del passaggio, l’oggettiva inadeguatezza degli strumenti istituzionali predisposti per gestirlo e, soprattutto, le scelte operate a stretto giro di posta nella gestione dei fondi europei, hanno giustamente portato i movimenti ambientalisti a denunciare le strategie di “greenwashing”, neppure troppo celate, che si muovevano e continuano a muoversi dietro alla propaganda della transizione ecologica. Eppure, nonostante le strategie di greenwashing che si dipanano al suo interno, crediamo che sarebbe un grave errore interpretare la “transizione ecologica” in termini di mero “marketing”, così come sarebbe un errore misurare l’autenticità o meno del passaggio sulla base del significato che noi attribuiamo al concetto di “transizione ecologica”.

NON SOLO GREENWASHING

Di certo, la transizione ecologica che ci stanno propinando non è quella che noi vorremmo, ma questo fatto di per sé non esclude che quella “transizione ecologica”, e cioè la transizione ecologica capitalistica, sia meno reale: non è il titolo della transizione che ci interessa, ma la realtà che essa contiene e che dobbiamo indagare perché con ogni probabilità quella realtà condizionerà fortemente i prossimi decenni. Si tratta di una realtà di straordinaria potenza perché al suo interno per la prima volta la classe dominante, il capitalismo nelle sue diverse articolazioni collettive ed istituzionali, si pone il problema della propria sopravvivenza ad una crisi che non appartiene all’antologia delle ciclicità economiche o ad una frattura determinata dalla soggettivazione sociale, ma al nodo prevedibile e pur sempre rimosso dell’intrinseca ed insanabile contraddizione tra un sistema economico basato sulla crescita infinita ed un mondo che invece è finito e che, proprio per questo, si basa su equilibri che, oltre ad un determinato livello di tensione, si rompono in maniera irreversibile. Contrariamente alle narrazioni che tendono a bypassarla come una strategia di mera conservazione dello stato di cose presente, la transizione ecologica capitalistica definisce un passaggio non solo reale, ma strategico nelle prospettive di governo e gestione del sistema economico globale. Non si tratta di una semplice trovata propagandistica, ma di un nuovo stadio del capitalismo, quello più maturo e avanzato, quello in cui la classe che detiene il potere economico e politico assume, per l’appunto come classe, consapevolezza della sua mortalità e cerca soluzioni che possano quantomeno ritardare, se non eludere, la propria fine. Il problema è che proprio dentro questa speranza o illusione si giocheranno le sorti del pianeta e verrà scientemente preclusa l’unica strada realmente efficace nel sottrarre la specie umana e le altre specie che ne condividono l’habitat ad una crisi irreversibile, ovvero quella che aggredisce il problema alla sua radice e, cioè, il sistema di produzione e di sfruttamento. Il passaggio che si sta producendo concretizza un processo progettuale di dimensionamento complessivo che investe, ed investirà sempre di più, non solo il campo strettamente economico, ma anche quello istituzionale, giuridico e culturale o, più esattamente, ideologico. La velocizzazione del passaggio all’interno del contesto pandemico non è un caso. La transizione ecologica capitalistica si radica per sua natura in un fondamento emergenzialista. Nella transizione ecologica capitalistica la condizione emergenziale assume un dimensionamento estremo, realmente senza precedenti perché mai, al di fuori di qualche disaster-movie, un dispositivo generale di emergenza è stato posto in diretta relazione con la possibile “fine del mondo”. Nella transizione ecologica capitalistica l’emergenza oltrepassa lo stato di eccezione e si incardina di diritto tra le fonti ordinarie di normazione, regolazione e disciplinamento sociale. Risulta, pertanto, logico o, meglio ancora, intelligente che proprio nella spinta emergenziale generata dalla pandemia essa abbia trovato un eccezionale volano di espressione ed affermazione e che con quel contesto emergenziale essa tenda a porsi in diretta continuità. Il tema della transizione ecologica capitalistica non è nato nella pandemia, ma ha colto le condizioni e le precipitazioni che essa ha prodotto per occupare lo spazio strategico che oggi le è assegnato.


In realtà il problema della transizione ecologica è un tema che già da tempo occupa le analisi e le ricerche degli economisti impegnati nel trovare soluzioni in grado di affrontare la problematica generale dell’infinitezza della crescita costretta nella finitezza del mondo e delle sue risorse. Ciò ha prodotto nel tempo diverse scuole di pensiero ed un acceso dibattito tra gli stessi economisti circa le strade percorribili e le prospettive più o meno realistiche ed efficaci. Ad oggi, volendo fare uno schema necessariamente semplicistico ed approssimativo delle ipotesi in campo, potremmo dire che sostanzialmente sono individuabili tre diversi approcci che convivono in una dialettica di scontro/incontro nel corpo della classe capitalistica. Il primo nettamente conservatore in cui prevale l’idea della transizione ecologica come dimensione tattica: mettere in campo azioni di aggiustamento/contenimento come ombrello al di sotto del quale mantenere sostanzialmente inalterato l’impianto produttivo e le sue dinamiche di espansione. Il secondo, che potremmo definire moderato, che invece assume la transizione ecologica come orizzonte strategico e che demanda la gestione/soluzione del problema ad una rapida intensificazione del cosiddetto “decoupling”, “…cioè il disaccoppiamento della crescita economica, in cui si riduce l’input di materie prime ed energia per produrre beni e servizi…”, il che significa “…fare di più con meno: più attività economica con meno danni ambientali, più beni e servizi con meno consumi ed emissioni. In sostanza significa fare le cose con più efficienza…(“Prosperità senza crescita” — Tim Jackson). Semplificando, secondo le teorie del decoupling la tempestiva accelerazione dell’innovazione tecnologica consentirebbe di mantenere in crescita l’output economico (cioè l’insieme dei beni e servizi prodotti) pur nel contesto di una drastica riduzione dell’assorbimento di risorse e dell’impatto ambientale. E’ bene precisare che la definizione di tale approccio come “moderato” è calibrata in rapporto al tema della crescita: i sostenitori del decoupling non mettono in discussione la crescita in quanto tale bensì il livello tecnologico all’interno del quale essa si determina, segnando la necessità di un’impennata nell’innovazione orientata proprio alla transizione ecologica. Al di fuori di tale profilo si tratta, tuttavia, di un approccio tutt’altro che moderato in quanto una reale politica di decoupling comporta cambiamenti rilevanti, anche sotto il profilo dell’organizzazione sociale e del lavoro. Il terzo approccio, che potremmo definire radicale, è quello che sostanzialmente ruota intorno all’idea di “economia stazionaria”. In questo caso analisi, critica e proposte affrontano direttamente il problema della crescita per arrivare ad ipotizzare la possibilità di un’economia in equilibrio, dove la crescita è tendenzialmente “stazionaria” ed i processi di valorizzazione si preservano spostando gli investimenti nei settori della cura della persona e dell’ambiente. Tale terzo approccio è quello che maggiormente assume la natura sistemica della crisi e la necessità di intervenire sul versante della produzione, assumendo, in parte, contenuti ed argomentazioni propri delle teorie della decrescita. Ed è proprio in forza dell’assunzione consapevole della contraddizione rappresentata dalla necessità di una crescita senza fine che tale approccio rappresenta probabilmente il punto più avanzato dell’elaborazione di quel “capitalismo collettivo” che per risolvere la contraddizione introietta elementi tipici della pianificazione socialista con un rinnovato ruolo in tale funzione dello Stato stesso. Non è questa la sede per entrare nel merito di una discussione accademica circa l’effettiva possibilità di un’economia stazionaria all’interno di un sistema economico che, in ogni caso, resta di stampo capitalistico o circa le conseguenza dello spostamento delle catene di valorizzazione del capitale nei settori della cura della persona e dell’ambiente. Ciò che invece è importante “fotografare” è che la transizione ecologica è pratica di un progetto, che tale progetto ha inevitabilmente natura processuale e che al suo interno gli approcci riconducibili al mero “greenwashing”, pur se ancora pesanti sul terreno delle azioni concrete poste in essere nelle attuali contingenze, non occupano affatto l’interezza dello spazio progettuale ma, al contrario, rappresentano al suo interno la componente più conservativa, destinata ad essere progressivamente superata e marginalizzata da opzioni in grado di mettere in campo una visione strategica ed un piano di intervento di ampio respiro.


LA TRANSIZIONE ECO-DIGITALE

Se è vero, dunque, che le operazioni di greenwashing continueranno ad occupare in una prima fase uno spazio importante, è altrettanto vero che la reale dimensione progettuale con la quale dovremo fare i conti è proprio quella rappresentata dal secondo degli approcci che sopra abbiamo brevemente richiamato, ovvero dall’insieme di teorie e pratiche che assegnano primariamente all’evoluzione tecnologica e digitale, implementata da adeguati assetti normativi e accordi internazionali, la funzione di mediare la crisi “compatibilizzando” la crescita. La narrazione ideologica che sorregge l’operazione si basa sull’asserita possibilità di “disaccoppiare” la crescita dall’incremento dell’impatto ambientale che essa determina: in sostanza più crescita, meno inquinamento e minore assorbimento di risorse naturali. Si tratta, in realtà, di una narrazione già smentita da economisti di diversa estrazione e provenienza culturale, secondo i quali, all’interno di un’economia basata sul mantenimento di un dato tasso di crescita, sarebbe possibile un disaccoppiamento relativo, ma non un decoupling assoluto. In altri termini, lo sviluppo tecnologico accompagnato da efficaci politiche attive, potrebbe ridurre l’impatto ambientale di una specifica produzione, ma tale riduzione sarebbe, comunque, compensata dall’aumento complessivo della produzione imposto dalla conservazione del tasso di crescita, così che un eventuale decoupling relativo non riuscirebbe mai a tradursi in un decoupling assoluto.

Ma a prescindere dall’effettiva efficacia, quantomeno in termini assoluti, delle politiche di decoupling, resta il fatto che nella transizione ecologica di matrice capitalistica il volano primario del costrutto progettuale e di quello ideologico, è rappresentato dallo sviluppo tecnologico e digitale, a cui è demandato il compito di conciliare l’inconcialibile, ovvero il mantenimento di un’economia basata sulla crescita permanente con le urgenze imposte dalla crisi climatica. D’altra parte, in un contesto in cui la crescita, nella sua accezione capitalistica, non può essere messa in discussione, le scelte sul campo diventano obbligate ed il perseguimento degli obiettivi sul terreno della riduzione delle emissioni deve necessariamente essere ricondotto alle potenzialità dell’innovazione tecnologica. E’ in questo contesto che, ad esempio, riemergono con sempre maggiore insistenza le pressioni per riaprire e rilanciare l’opzione nuclearista o si costruisce la narrazione dello smart working come strumento di riduzione delle emissioni legate alla mobilità del lavoratore o, addirittura, si avvia la discussione sulla possibilità di quote di carbonio assegnate ai singoli cittadini e commercializzabili, sistema che il direttore del Climate Action Centre del KTH-Royal Institute of Techology (Svezia) chiama nientemeno che “dichiarazione dei redditi per le emissioni”. La transizione ecologica capitalistica è, necessariamente, una transizione tecnologica e digitale: non solo perché l’innovazione tecnologica è necessaria per mediare e gestire la crisi climatico-ambientale, ma anche perché essa costituisce una necessità in sé ed impone un processo generale di transizione verso modelli organizzativi e culturali in grado di massimizzare le potenzialità offerte dalla rivoluzione digitale. Si potrebbe osservare che in realtà tale transizione sia già avvenuta, considerato il livello di digitalizzazione dei processi produttivi e di sfruttamento già sedimentato nel corso degli anni. Eppure, proprio la pandemia ha rivelato in maniera trasparente quanto solo all’inizio del 2020 fosse ancora arretrata l’organizzazione del lavoro e l’organizzazione sociale in rapporto alle potenzialità già insite nei processi di digitalizzazione e, tuttavia, ancora inespresse. Nel decorso di un brevissimo lasso di tempo smart working e addestramento sociale al fare digitale ed interconnesso hanno conosciuto un salto di qualità fino a poco tempo prima impensabile. I cambiamenti a cui abbiamo assistito negli ultimi due anni descrivono solo l’inizio di un lungo capitolo ancora in gran parte da scrivere.

La transizione ecologica capitalistica non è solo una strategia per gestire la crisi climatica e ambientale: è, invece, una strategia di ridefinizione complessiva del sistema che assolve alla funzione epocale di adeguamento dell’impianto organizzativo, istituzionale, normativo e culturale alle necessità e potenzialità date dall’ “era” digitale. Si tratta di una transizione di ampia portata che non ha un termine prevedibile e che, anzi, forse il termine proprio non ce l’ha. A dispetto del concetto di “transizione” che lo caratterizza, si tratta di un processo che di transitorio ha ben poco: la transizione eco-digitale è una condizione, uno “stato” che caratterizzerà i prossimi anni, il parametro di definizione e legittimazione delle scelte, il motore di cambiamenti destinati ad investire la visione stessa dell’organizzazione sociale e del ruolo del singolo al suo interno. Ed in questa prospettiva sarà anche uno “Stato” con la esse maiuscola perché i processi dovranno necessariamente investire anche il campo istituzionale, gli assetti normativi e quelli ordinamentali.

La transizione eco-digitale, tornando alle premesse iniziali, non è affatto un’operazione di mera propaganda. Risponde, al contrario, ad una duplice e vitale necessità del capitale: da un lato quella di assumere come classe e, quindi, dal punto di vista degli interessi collettivi del capitale, la crisi climatica ed ambientale e le precipitazioni che essa è destinata a produrre; dall’altro quella di emanciparsi da modelli di organizzazione del lavoro e della società ancora troppo condizionati dalla fase pre-digitale del capitalismo e dalle sue istituzioni culturali, politiche e giuridiche. Tale duplice necessità trova una formidabile composizione nella transizione eco-digitale, dove le due necessità non solo convivono, ma si compenetrano, accreditandosi l’una con l’altra e generando un potente dispositivo di intervento e di cambiamento.


NECESSITA’ DI UNA PROSPETTIVA STRATEGICA

Il fatto che attraverso la transizione eco-digitale il capitalismo assuma la crisi climatico-ambientale riconoscendone non solo l’esistenza, ma anche il dimensionamento e la rilevanza nelle strategie economiche e nelle scelte politiche, ha implicazioni importanti anche sul versante dei movimenti di opposizione e di contrasto alle politiche di devastazione ambientale. In un simile contesto riuscire a costruire un discorso realmente autonomo, ovvero non recuperabile all’interno della transizione eco-digitale capitalistica, è difficile, anche perché le ordinarie strategie di “autonomizzazione”, basate sulla radicalità dei contenuti e delle pratiche, risultano spesso spuntate e poco efficaci. Il tema della “fine del (nostro) mondo”, dell’irreversibilità della crisi e del poco tempo a disposizione per arrestare/deviare il processo, hanno di per sé un contenuto “radicale”, in qualche maniera estremizzano il discorso anche nella sua declinazione ufficiale. Persino il tema della imputazione delle responsabilità al sistema economico, produttivo e finanziario capitalistico non riesce di per sé a sovvertire il discorso dominante, all’interno del quale anche le “colpe” del capitalismo sono in qualche maniera assunte e problematizzate. La radicalità delle pratiche, comunque sempre utile e positiva laddove si determina, non riesce di per sé a garantire una prospettiva strategica per un duplice ordine di motivi: 1) La radicalizzazione delle azioni nelle condizioni attuali non riesce a raggiungere un livello tale da produrre nel tessuto propagandistico, ideologico e progettuale della transizione eco-digitale uno strappo in grado di mettere realmente in crisi i complessivi dispositivi di recupero; 2) Le pratiche possono scardinare il discorso dominante se, al di là degli obiettivi di volta in volta perseguiti, sono riconducibili ad una visione generale, imposta proprio dalla dimensione della crisi, che sia credibile, leggibile ed efficace sotto il profilo delle soluzioni praticabili.

L’emergenza climatica, proprio in quanto emergenza, pone i movimenti in una posizione estremamente difficile. Sappiamo bene quanto le “emergenze”, reali o strumentali che siano, avvantaggino i dispositivi di potere rispetto ai movimenti di opposizione, perlomeno quando non siano tali da determinare di per sé precipitazioni sociali di ampie proporzioni. La forza dell’emergenza climatico-ambientale è data non solo dalle proporzioni della crisi ma anche e soprattutto dal tempo breve delle possibili soluzioni. Ma proprio l’urgenza del tempo breve, che attribuisce alla contraddizione una dimensione strategica anche nel campo avversario, rischia di tradursi in una debolezza dei movimenti, in una difficoltà strutturale a generalizzare il proprio discorso. L’affermazione, ovviamente giusta, secondo cui non esiste soluzione reale alla crisi climatico-ambientale che non passi attraverso il superamento, la fine del capitalismo, produce un’utile evocazione, ma nella concretezza del “tempo breve” finisce con l’essere marginalizzata a vantaggio degli obiettivi presentati come “concretamente praticabili” proprio perché assunti o assumibili, magari su pressione dei movimenti di opinione e con il concorso delle istituzioni nazionali e internazionali, all’interno della transizione eco-digitale capitalistica. D’altra parte, è pur vero che anche dal punto di vista dei movimenti di opposizione è necessario misurarsi con gli obiettivi intermedi, con le possibili conquiste parziali che forzando il confini della transizione eco-digitale capitalistica, da un lato saldano le necessità immediate con le prospettive di lungo periodo e dall’altro accumulano potenza nei movimenti mentre indeboliscono il campo avversario.

La transizione eco-digitale capitalistica costituisce uno spazio all’interno del quale calare istanze che sono nel contempo rivendicative e sovvertitrici. Un determinato obiettivo non è compatibile per il semplice fatto di essere immediatamente raggiungibile all’interno del sistema dato. Le conquiste, seppur parziali, generano potenza e modificano da subito le condizioni materiali di esistenza: per questo esse sono più che mai necessarie. Il problema vero non è il piano rivendicativo in quanto tale, ma la visione politica e di prospettiva in cui esso si radica e che esso esprime. Ogni conquista segna e comunica la vittoria della visione strategica che ha prodotto quella determinata battaglia, che ne ha condizionato il percorso ed orientato gli esiti. Nella fase che stiamo attraversando l’individuazione degli obiettivi rivendicativi, anche di ampia portata, avviene costantemente ed innerva in maniera organica tutti i territori, dove le contraddizioni si manifestano in maniera brutale, aggredendo direttamente le condizioni di vita delle persone. Il problema, dunque, riguarda primariamente proprio la visione generale e strategica, la sua ridefinizione e la sua espressione nei percorsi organizzativi, la sua materializzazione nell’immaginario del possibile. Ma perché una visione strategica possa tornare ad essere visione viva, pulsante, conflittuale, possa tornare a produrre senso di appartenenza e, di converso, discriminanti, possa rompere la retorica buonista dell’ “avversario” per ricostruire un discorso efficace sul “nemico”, è necessario che essa non sia ideologica ed enunciativa. Non è sufficiente dichiararsi anti-capitalisti o alludere alla fine del capitalismo come la panacea di tutti i mali per ricostruire una visione strategica. La crisi climatico-ambientale, pur nella sua drammaticità, crea condizioni straordinarie per riaprire una progettualità complessiva che ponga dichiaratamente il tema della storicità del sistema capitalistico e della sua fine come necessità umana, come l’unica prospettiva realistica per poter continuare ad avere un futuro degno di essere vissuto. Ma a nostro avviso sarebbe un errore pensare che una simile dimensione progettuale possa originarsi come per caduta dalla crisi climatico-ambientale. La crisi crea delle condizioni ed il capitale, attraverso la transizione eco-digitale, sta costruendo le sue risposte strategiche, che, al di là delle critiche e delle demistificazioni, occupano ed occuperanno spazi rilevanti, anche perché potranno avvalersi di risorse e dispositivi di potere e di controllo giganteschi. Per riuscire a ricostruire una progettualità realisticamente anticapitalista, non possiamo limitarci a fronteggiare le strategie del nemico: dobbiamo attaccare direttamente lo stratega.


LA TRANSIZIONE ECO-DIGITALE COME IMPIANTO IDEOLOGICO

La transizione eco-digitale è una progettualità in fieri, all’interno della quale si sono già determinate e si determineranno ancora di più in futuro conflittualità endo-capitalistiche anche di forte impatto. Le condizioni generali all’interno delle quali si producono i processi di valorizzazione impongono cambiamenti rilevanti in mancanza dei quali la stessa tenuta del sistema è a rischio. L’assunzione della crisi climatico-ambientale come scenario generale all’interno del quale ricalibrare le strategie di riorganizzazione sia della produzione che del lavoro, e quindi anche degli apparati normativi ed amministrativi, segna un cambio di stadio epocale che non ha facili paragoni nella storia del capitalismo. Forse se volessimo fare un improprio parallelismo, dovremmo tornare con il pensiero a quando il capitalismo si è trovato nell’improrogabile necessità di assumere al suo interno il tema della democrazia e delle rappresentanze sociali come forma-Stato adeguata ad uno sviluppo delle forze produttive che oramai si traduceva in soggettivazione politica e in una rivendicazione di potere che non poteva più essere elusa. Anche in quel caso il passaggio fu accompagnato da un imponente costrutto ideologico e da aperti conflitti tra le componenti più avanzate e quelle più retrive della classe capitalistica. Ed anche in quel caso la “transizione” ad un maturo sistema liberal-democratico aveva imposto di ridefinire la figura del “cittadino”, le sue caratteristiche, il suo profilo sociale e le forme della sua responsabilizzazione all’interno del sistema. Si tratta, dicevamo, di una parallelismo improprio perché ovviamente le differenze sono molto profonde e perché in quel caso il cambiamento traeva origine da un problema di potere, mentre nella transizione eco-digitale il tema del potere e della sua ridistribuzione è totalmente estromesso.

Tuttavia, anche nella transizione eco-digitale si rende necessaria una ridefinizione della figura del “cittadino”, in realtà già in corso da tempo. Nella transizione eco-digitale, coerentemente con un impianto generale in cui l’individuo è connesso ma sempre più separato e “distanziato” dagli altri, si incrementano i processi di “individualizzazione” e parcellizzazione. La colpevolizzazione del proprio stile di vita, la responsabilizzazione del singolo in una sorta di missione per la salvezza del mondo che vede impegnata l’umanità senza differenze di classe e di condizione sociale, l’idea che in ogni singolo atto della nostra quotidianità sia contenuto l’universo, costruiscono un’opprimente etica dell’ “essere responsabili”, che pone l’individuo da solo difronte all’enormità del mondo e dei suoi problemi. Un binomio quello della “colpa e responsabilizzazione” che assolve anche alla funzione di preparare il terreno per la compartecipazione del cittadino ai costi della transizione, presentati come un dovere per rimediare alla propria porzione di responsabilità nella distruzione degli ecosistemi. Digitando in un qualsiasi motore di ricerca “calcolatore di impronta ecologica” è possibile accedere a diversi siti che in base alle tue abitudini quotidiane, che poi rivenderanno come metadati, calcolano il tuo specifico apporto alla distruzione del mondo. Attraverso la progressiva estensione del diritto differenziale sempre più accreditato come diritto ordinario, anche i sistemi sanzionatori si individualizzano: al principio generale del “tutti i cittadini sono uguali difronte alla legge” si sostituisce progressivamente l’idea del diritto individualizzato, ritagliato sul singolo o su specifici aggregati di persone. Il nostro Paese è un eloquente esempio di come attraverso l’introduzione di aggravanti o l’esclusione di determinati reati dall’accesso a benefici o garanzie e l’inserimento di nuove fattispecie calibrate su contesti specifici, anche il dispositivo repressivo divenga sempre più modulare ed individualizzato. Lo stesso versante dei diritti civili sta subendo un’incredibile torsione attraverso la quale la rivendicazione dell’effettività dei diritti riconosciuti viene direttamente riconvertita in istanza repressiva e sanzione carceraria. La critica alle istituzioni totali ed in particolare al carcere, per lungo tempo parte integrante ed insostituibile del dna dei movimenti, arretra giorno dopo giorno lasciando spazio proprio sul versante dei diritti civili ad una visione in cui la reclusione riacquista cittadinanza, purché volta alla punizione del soggetto socialmente riprovevole. Ma nel momento in cui la critica si sposta dall’istituzione totale alla selezione di chi è giusto che vi venga rinchiuso, la partita è già persa. La difficoltà nella pratica a ricondurre l’ineffettività dei diritti civili alle condizioni sociali che il sistema produce e riproduce ogni giorno, fa sì che la loro efficacia finisca con l’essere demandata alla capacità impositiva e repressiva dello Stato, che proprio di quel sistema è parte qualificata. Il sempre più diffuso rovesciamento del rapporto tra particolare e generale, tra singolo e collettivo, favorisce grandemente i processi di individualizzazione che sono parte necessaria del costrutto ideologico che deve accompagnare la transizione.

Nella transizione eco-digitale il cittadino è smart, ecologicamente benpensante, consapevole delle proprie colpe, disposto a pagare per sistemare le cose, rispettoso delle differenze fino a quando non diventano trasgressioni, adeguatamente critico nei confronti del potere purché questo non venga messo in discussione, disposto a comprarsi l’auto elettrica anche se costa di più, attento ai diritti civili, senza disdegnare un po’ di carcere quando serve. E’ un cittadino che responsabilmente assume la lente dell’ “incuria” come strumento di interpretazione della realtà e delle sue contraddizioni. Ma soprattutto il cittadino nella transizione eco-digitale è un cittadino solo, senza legami di classe, individuato e individualizzato.

La transizione eco-digitale è un processo in itinere di ampie proporzioni, all’interno del quale si determinano cambiamenti rilevanti destinati ad investire anche il campo della produzione culturale e gli stessi assetti valoriali. C’è, però un elemento, un fattore fondamentale che anche all’interno della transizione eco-digitale assume le caratteristiche della inamovibilità, un paradigma che nonostante tutto non può essere messo in discussione e che anzi costituisce la ragione primaria della stessa transizione eco-digitale: la crescita.


IL PARADIGMA DELLA CRESCITA

La transizione eco-digitale, come anticipavamo all’inizio del documento, mantiene intatta la contraddizione primaria tra il paradigma della crescita infinita, che costituisce il fondamento dell’intero sistema economico capitalistico, e la finitezza del mondo in cui viviamo. All’interno di tale contraddizione si gioca una partita vitale. E’ evidente, infatti, che qualsiasi miglioramento conseguito attraverso la tecnologia o altre politiche di contenimento dell’impatto ambientale, è destinato inesorabilmente ad essere fagocitato dalla costante tensione a mantenere alti o, comunque, attivi i tassi di crescita. Il tema della crescita nella sua accezione capitalistica rappresenta, pertanto, un tema centrale con il quale dobbiamo necessariamente misurarci. E’ indiscutibile che anche nel pensiero operaio e nella tradizione marxista un approccio di matrice sviluppista e industrialista ha svolto per lungo tempo un ruolo dominante. D’altra parte è anche comprensibile che in contesti ancora caratterizzati da condizioni di grave e diffusa povertà, si individuasse nella stessa crescita capitalistica un motore di emancipazione sociale, destinato, sulla scorta della pressione esercitata dal conflitto di classe, a migliorare le condizioni di vita delle classi subalterne e contemporaneamente, riducendo il ricatto sulla sopravvivenza, a favorirne i processi di soggettivazione e di organizzazione. Ad oggi, tuttavia, risulta evidente come un simile approccio si riveli anacronistico e come tra crescita capitalistica ed emancipazione sociale si sia oramai prodotta una profonda divaricazione, destinata progressivamente ad allargarsi. Una divaricazione che oramai emerge nitida e spazia nella consapevolezza generale. Il furto ambientale e la devastazione degli habitat perpetrati nel corso della storia, consumati a vantaggio di un gigantesco accumulo di profitti, non sono più mediati dal tempo e le ricadute non sono più relegabili in un futuro lontano dalla nostra quotidianità: l’espropriazione di risorse vitali e la condizione di cattività in cui siamo costretti esplicano i loro drammatici effetti qui ed ora. Sin dagli albori del ventunesimo secolo è emerso con altrettanta chiarezza come la dinamica della crescita economica eretta a parametro assoluto di definizione generale delle scelte e delle strategie, producesse vasti processi di destabilizzazione, impoverimento, guerre, crisi degli stessi dispositivi di democrazia liberale.

Nell’attuale stadio della parabola capitalistica, ancor più all’interno della transizione eco-digitale, crediamo che sia necessario superare ogni tentennamento ed aggredire con forza e chiarezza il paradigma della crescita economica, che costituisce il cuore delle strategie avversarie. Il che significa aggredire il tema del perché, del come, del dove e del quanto produciamo e del rapporto tra ciò che viene prodotto ed i bisogni sociali complessivamente intesi. Il problema non è la “crescita” in quanto tale, ma il modello di crescita capitalistica, che è anche un modello di produzione e di organizzazione del lavoro. Il problema non è tra crescere e decrescere, ma come crescere e cosa significa crescere nelle condizioni generali in cui ci troviamo a vivere. La necessità di una crescita diversa e alternativa a quella basata sul PIL, non è più una questione relegata nel dibattito accademico, teorico o politico. Tale necessità, anche alla luce dell’evidenza del disastro ambientale prodotto dal sistema economico, è oramai entrata nella percezione sociale, costruisce giorno dopo giorno una nuova sfera desiderante che ruota intorno al bisogno di riappropriarsi del proprio habitat naturale, di ricostruire il legame sociale e di recuperare “tempo”, cioè parti di vita sottratte ai dispositivi di messa al lavoro. Il tentativo di mantenere al centro dei processi di crescita il PIL colorandolo di verde, non modifica nulla delle condizioni generali che oggi più che mai impongono di scalzare il PIL da quella posizione dominante in cui la garanzia di crescita del profitto lo ha collocato. Le stesse teorie economiche sull’ “economia stazionaria” a cui accennavamo sopra, al di là delle prospettive progettuali a cui esse sono ancorate, che non risultano credibili proprio perché non mettono in discussione il sistema economico capitalistico in quanto tale e presuppongono di contenere i cambiamenti al suo interno, risultano tuttavia utili nell’evidenziare come già oggi, pur all’interno del sistema economico dato, sia possibile imprimere una svolta radicale sul terreno del modello di crescita: ciò significa che è possibile individuare e praticare spazi concreti di azione già da subito, a partire dal nostro presente.

In un contesto in cui oramai solo pochi anni ci separano dall’irreversibilità del collasso ambientale, mantenere inalterato il parametro della crescita basata sul PIL è una follia. Non è quella la crescita che ci serve e che vogliamo. Crescita sociale e crescita economica seguono oramai traiettorie divergenti e possono incrociarsi nuovamente solo in una condizione: quella confliggente dello scontro.


LA CONTRADDIZIONE CAPITALE — LAVORO

Aggredire il paradigma capitalistico della crescita significa inevitabilmente aggredire l’organizzazione della produzione e l’organizzazione del lavoro, contesti che anche il capitale si trova nella necessità di ridefinire all’interno della transizione eco-digitale. Sotto questo profilo dobbiamo sottrarci alla retorica moralista e disciplinante che, individualizzando colpe e responsabilità sistemiche, ascrive il cambiamento o, quantomeno, una parte importante di esso, alla sommatoria di personali stili di vita votati alla sobrietà. Certamente, una visione diversa di ciò che può essere la crescita posta al di fuori dei parametri dell’economia capitalistica produce anche una cultura diversa e una diversa percezione di sé e del proprio rapporto con tutto ciò che compone il mondo in cui viviamo: ciò inevitabilmente condiziona anche gli stili di vita e gli assetti valoriali intorno ai quali essi vengono costruiti. Ma i cambiamenti generali richiedono azioni collettive a ben altri livelli. Ed è anche importante disinnescare la narrazione secondo cui ad ogni rilevante intoppo nei processi capitalistici di crescita corrisponde necessariamente una caduta verticale del tenore di vita. In realtà, ci sono interi settori produttivi che potrebbero essere dismessi o ridimensionati senza che questo, di per sé, si traduca in un abbassamento del tenore di vita sociale. Pensiamo, per fare un esempio semplice, all’obsolescenza programmata dei prodotti: si tratta di un meccanismo che decuplica la produzione di beni, con tutte le implicazioni che questo determina sotto il profilo del consumo di risorse, dell’inquinamento, dei rifiuti ecc…, ma che non ha una reale rilevanza sul tenore di vita delle persone, che resterebbe inalterato se quel determinato bene durasse di più. In realtà, è vero che ad una crisi dei processi di crescita capitalistica corrisponde un impoverimento sociale, ma questo è vero in quanto la ridistribuzione (miserabile) della ricchezza avviene sostanzialmente attraverso il lavoro contrattualizzato (espressione nella quale comprendiamo qualsiasi forma di “contrattualizzazione” dell’attività lavorativa e della sua retribuzione, compreso l’accordo “in nero” tra lavoratore e datore di lavoro). Ciò determina inevitabilmente il ricatto storico che vincola le condizioni sociali di vita al tasso di crescita: laddove la crescita si contrae intervengono i licenziamenti e, quindi, l’espulsione del lavoratore dal circuito di distribuzione delle risorse. Non c’è, dunque, possibilità di aggredire il paradigma capitalistico della crescita senza aggredire i meccanismi di ridistribuzione della ricchezza e, quindi, l’organizzazione della produzione e quella del lavoro.

Nel nostro ultimo documento (Flowing) avevamo evidenziato la necessità di ricentralizzare il ragionamento sulla contraddizione capitale/lavoro. Ovviamente, come avevamo già specificato nel documento, il riferimento era alla contraddizione capitale/lavoro per come essa si riproduce nell’epoca che stiamo vivendo e nell’attuale stadio dello sviluppo capitalistico. Nessuno dei due termini della contraddizione è statico: al contrario, entrambi sono estremamente dinamici e hanno subito nel tempo trasformazioni radicali. Sotto questo profilo, la digitalizzazione del lavoro e delle nostre vite rappresenta uno spartiacque senza precedenti per le trasformazioni che ha prodotto nell’organizzazione del lavoro e dello sfruttamento. Si è scritto molto negli ultimi anni circa la natura estrattiva del capitale ed i nuovi dispositivi di sfruttamento diffusi a livello sociale. Ciononostante sembra quasi che il concetto di “lavoro”, per uno strano fenomeno di cristallizzazione storica, sia destinato a rimanere ancorato al fantasma di se stesso, alla sua declinazione novecentesca, all’immaginario, per alcuni esaltante per altri angosciante, della fabbrica se non, addirittura, dell’opificio.

Non è possibile affrontare il tema della contraddizione capitale/lavoro se non si ridefinisce il concetto di lavoro nell’epoca digitale e nella transizione eco-digitale del capitalismo. E nell’effettuare tale ridefinizione, dobbiamo andare fino in fondo, operare una cesura verticale con il concetto di lavoro pre-digitale, sovvertirne il discorso, affermare che siamo già nella piena occupazione, anzi in un’occupazione così “piena” che nella storia dell’umanità non ha eguali. Il problema della distribuzione del reddito non riguarda più la diversa posizione tra chi lavora e chi non lavora, ma tra il lavoro riconosciuto e quello non riconosciuto, tra quello pagato e quello non pagato, tra quello normato e quello reso volutamente clandestino. Questo, ovviamente, non significa che non esistono più le forme classiche di lavoro subordinato, ma anche in questo caso il lavoro effettivo è contrattualizzato solo in una sua porzione, mentre resta impagata ed occultata l’attività produttiva che il lavoratore contrattualizzato continua a svolgere al di fuori del rapporto di lavoro riconosciuto. Nell’epoca digitale la produzione di plus-valore non avviene in luoghi confinati, ma in un continuum spazio-temporale che occupa interamente la nostra quotidianità: parlare di lavoro oggi significa parlare della nostra stessa vita messa a lavoro. Un lavoro che non è un’astrazione, un’articolazione filosofica, ma un dato materiale che ogni giorno produce un’immensità di profitti. E questo non solo perché produciamo costantemente nella nostra condizione di “soggetti connessi” dati e metadati che consentono livelli di valorizzazione altissimi, ma anche perché ogni giorno ognuno di noi “internalizza” nella propria giornata di vita/lavoro, attività che prima costituivano parte organica, e pagata, dell’organizzazione di impresa e dell’amministrazione dello Stato o di altri enti. Ogni volta che acquistiamo un bene on line, non solo produciamo il plusvalore dei dati, ma svolgiamo anche attività che prima venivano svolte da lavoratori in carne ed ossa addetti all’ufficio vendite. Ogni volta che sbrighiamo telematicamente una pratica amministrativa o che effettuiamo un’operazione di home banking internalizziamo gratuitamente nella nostra giornata biolavorativa attività che prima venivano retribuite ed erano dislocate all’interno dell’organizzazione del lavoro contrattualizzato. A ben vedere, la cosiddetta “delocalizzazione” non riguarda solo il fenomeno della migrazione degli impianti produttivi all’estero, ma anche il trasferimento di frazioni produttive dall’organizzazione “aziendale” alla compagine dei nostri impegni quotidiani, sempre più ampia e sempre più difficile da inseguire. Più procediamo in questo ventunesimo secolo e più ci rendiamo conto che la tecnologia, anziché liberare la vita dal lavoro, ha liberato il lavoro dalla vita, ha fatto sì che il lavoro uscisse dai luoghi, sempre più ampi, in cui era relegato, per “occuparci” nel senso più vero del termine: oggi siamo tutti “occupati”. Lo sfondamento di ogni confine e l’occupazione delle nostre vite è tale che non ha neppure più senso distinguere tra lavoro “produttivo” e lavoro “riproduttivo”, perché in realtà oramai è tutto sussunto nel lavoro connesso, che spazia liberamente nella nostra esistenza individuale e sociale e taglia trasversalmente tutte le sfere della nostra quotidianità. Nello smart working, che nella pandemia ha trovato uno straordinario viatico di generalizzazione, lavoro contrattualizzato, non contrattualizzato e di riproduzione si intrecciano in un groviglio inestricabile, i tempi si compenetrano e si funzionalizzano fino a lasciare un’unica distinzione: il lavoro retribuito e quello non retribuito. Con il progressivo sviluppo dell’Internet of Things anche la più banale operazione quotidiana, come ad esempio l’utilizzo di un elettrodomestico, è destinata a tradursi in un “atto” di produzione e, nel contempo, di controllo: controllo e produzione, cioè lavoro. E’ quello che per l’appunto nel nostro documento definivamo come il “flowing”, quel flusso che ci subordina alla valorizzazione capitalistica in ogni momento della nostra giornata e che ridefinisce, in rapporto a chi lo gestisce ed a chi lo subisce, i confini di classe. Tornando, dunque, alla contraddizione capitale/lavoro, la necessità di una sua ricentralizzazione nel ragionamento e, quindi, nelle strategie, risponde ai verticali cambiamenti materiali che sono intervenuti nel corso degli anni e che hanno trasformato radicalmente gli stessi termini della contraddizione, assegnandogli un dimensionamento prima sconosciuto. E’ evidente che approcciare il tema con un armamentario teorico e di analisi pre-digitale, quindi con un armamentario che dobbiamo brutalmente definire “vecchio”, porta fuori strada e non consente di valorizzare le potenzialità che un nuovo discorso sul “lavoro” o meglio sul “lavoro connesso” e sulla giornata “biolavorativa” possono offrirci. Potenzialità che si ricollegano direttamente al tema della crisi climatico-ambientale, perché se la crisi impone di aggredire il paradigma della crescita, diventa più che mai urgente ridefinire i meccanismi di ridistribuzione del reddito rivendicando il loro progressivo sganciamento dai processi di crescita capitalistica. Drastica riduzione dell’orario di lavoro, continuità del reddito, riconoscimento economico della giornata biolavorativa, individuazione delle produzioni e dei prodotti che possono da subito essere aggrediti non solo perché inquinanti, ma anche perché inutili sotto il profilo dei bisogni sociali, costituiscono assi strategici attraverso cui è possibile materializzare quell’attacco al paradigma della crescita, all’organizzazione del lavoro ed alla redistribuzione del reddito, che garantisce l’autonomia del nostro discorso dentro la crisi ambientale e climatica. Ciò a maggior ragione se si considera che anche il capitale ha la necessità di intervenire sugli stessi terreni per imporre, attraverso la transizione eco-digitale, le proprie ricette. Le strategie di decoupling, laddove attuate, portano con sé un’ulteriore contraddizione. La spinta ad intensificare il processo di innovazione tecnologica e digitale comporta inevitabilmente anche un innalzamento della produttività del lavoro, con conseguente riduzione del lavoro contrattualizzato impiegato: è evidente, dunque, che anche il capitale si troverà nella sempre più stringente necessità di misurarsi con nuovi dispositivi di ridistribuzione del reddito, in assenza dei quali l’intero processo diventerebbe ingestibile.

L’espansione e la sistematizzazione delle forme di lavoro in smart working, con i cambiamenti che inevitabilmente introducono sul versante della gestione delle risorse umane, se da un lato intensificano i livelli di sfruttamento e di controllo, dall’altro producono come interfaccia conflittuale una maggiore agibilità delle tematiche connesse alla giornata biolavorativa. Ovviamente quelle stesse forme di lavoro sono destinate ad approfondire la parcellizzazione sociale e, quindi, a rendere ancora più difficili i processi di ricomposizione e di soggettivazione. Per questo abbiamo bisogno di ricostruire un nostro paradigma di appartenenza e di riconoscibilità della classe, un immaginario che abbia la forza di oltrepassare la frammentazione imposta dall’attuale organizzazione del lavoro e la disarticolazione degli interessi di classe che essa produce. Come ricostruire un nostro paradigma di classe adeguato all’epoca che stiamo vivendo introduce un ragionamento complesso e denso di sfaccettature. Pensiamo, tuttavia, che un simile percorso non possa che partire dalla “soppressione” della vecchia idea di lavoro, dalla scelta di liberare il concetto di lavoro dal portato ideologico nel quale esso è rimasto prigioniero per farne, invece, il veicolo rappresentativo dell’attuale condizione di sfruttamento e quindi anche della comune appartenenza alla classe sulla quale lo sfruttamento è esercitato. Guardando alle nostre spalle è facile rendersi conto di come il più alto livello di composizione e soggettivazione di classe si sia sempre determinato laddove i processi ricompositivi si determinavano sulle comuni condizioni di sfruttamento e, quindi, sulla comune condizione lavorativa. Cosa significa oggi tradurre i processi di ricomposizione sulla base della comune condizione di sfruttamento rappresentata dal “lavoro connesso” ? Assegnare un significato radicalmente nuovo al concetto di lavoro, significa assumere fino in fondo i cambiamenti già intervenuti e quelli che interverranno sul terreno dell’organizzazione del lavoro e dello sfruttamento. Se misurassimo lo sfruttamento in rapporto al concetto classico di lavoro, dovremmo necessariamente affermare oggi che gran parte dello sfruttamento avviene al di fuori dei suoi confini. Ma se misuriamo lo sfruttamento in rapporto a ciò che oggi è effettivamente il “lavoro” dovremmo giungere alla conclusione opposta, ovvero che lo sfruttamento è tutto lì dentro, perché l’attuale organizzazione del lavoro coincide con l’organizzazione delle nostre vite e che l’idea di una “vita” che non sia messa al lavoro è un mero costrutto ideologico destinato, in ultima analisi, ad occultare le reali condizioni di classe. Tutto è oggi mediato dall’attuale organizzazione del lavoro. Il costante ed esponenziale esproprio delle risorse naturali ed il travolgimento degli eco-sistemi non configura una sorta di ambito parallelo. Non c’è nessun “padrone” che può autonomamente recarsi in un campo per rubare qualche “kilowattora” di energia: è sempre attraverso l’organizzazione della produzione e del lavoro che può realizzarsi quell’esproprio senza limiti che sta portando il mondo al collasso. Ed anche la relazione tra la specie umana e le altre specie viventi, il rapporto “ecologico” tra l’umano ed il non-umano, non è il portato di un’etica individuale ma il prodotto (sempre individualmente rinunciabile laddove possibile) dell’organizzazione del lavoro, che definisce a prescindere da noi la relazione tra le nostre vite ed il resto del mondo.

Parlare, dunque, della contraddizione capitale/lavoro nella nostra epoca assume significati totalmente diversi rispetto a quelli a cui potrebbe pensare chi rimane ancorato ad una visione di quella contraddizione scolastica e ideologica. “La tradizione di tutte le generazioni passate pesa come un incubo sul cervello dei vivi”, scriveva giustamente Marx. La contraddizione capitale/lavoro è una contraddizione storicamente determinata ed assume significati diversi a seconda del contesto storico in cui essa agisce. Risignificare il concetto di lavoro alla luce della attuali condizioni di classe è determinante per riconfigurare il terreno conflittuale e la stessa ricomposizione di classe. Ciò anche perché un simile processo di risignificazione, oltre ad essere coerente con le attuali condizioni materiali di esistenza, nel momento stesso in cui afferma e rivendica il riconoscimento anche economico del lavoro sociale, ne afferma e rivendica anche il rifiuto in quanto insostenibile organizzazione della nostra e delle altrui vite, insostenibile al punto tale di aver condotto il mondo al collasso. Risignificare oggi il paradigma del lavoro è un passaggio obbligato per restituire portata strategica all’immaginario ed alla pratica del rifiuto del lavoro.


IL RIFIUTO DEL LAVORO

Sull’onda della pandemia si è verificato un fenomeno, di cui nel nostro Paese si è parlato poco, ma che in molti altri paesi occidentali ha, invece, impegnato il dibattito pubblico sia per la sua apparente anomalia, sia per le diverse implicazioni ad esso riconducibili. Negli Stati Uniti lo hanno definito “Great Resignation”, dimissioni di massa. Nonostante le incertezze economiche determinate dalla crisi pandemica, tra il 2020 ed il 2021 è stato registrato un volume di dimissioni volontarie dal lavoro che non ha precedenti. Negli Stati Uniti il fenomeno ha assunto proporzioni macroscopiche, tanto che molte imprese si sono trovate a dover affrontare un duplice problema: quello della perdita di personale qualificato, non facilmente rimpiazzabile, e quello della perdita di dati, che ha generato un diffuso allarme negli ambienti imprenditoriali. Code42, società di Minneapolis specializzata in sicurezza informatica, ha evidenziato nel suo report come in corrispondenza con l’accumularsi delle dimissioni volontarie gli eventi di esposizione dei dati aziendali (quindi di perdita di controllo sugli stessi) siano aumentati vertiginosamente, raggiungendo, nel rapporto tra la prima metà del 2020 e lo stesso periodo del 2021, un aumento del 40%, che sale al 61% nel rapporto tra l’ultimo trimestre e quello precedente. Si tratta di un fenomeno particolarmente significativo sia in sé, sia per alcune linee di tendenza che esso esprime. Dalle indagini effettuate dai diversi istituti di ricerca (certo non annoverabili tra i nostri “amici”) emerge che il fattore principale che ha concorso ha determinare il fenomeno delle dimissioni di massa è stato proprio l’aumento del carico di lavoro determinato dallo smart working. Aumento che non è dato solo da un parametro quantitativo, ma anche da un parametro estensivo: gli orari di lavoro sono saltati, tutta la giornata è diventata spazio occupabile e, di fatto, è stata occupata. Stress, burn-out, senso di oppressione e di controllo hanno prevalso rispetto a quelli che avrebbero potuto essere i vantaggi di un lavoro estratto dal luogo di lavoro ed internalizzato nella propria abitazione. Ma non è mancato chi ha evidenziato come sul fenomeno della great resignation possa aver influito anche un ripensamento generale sulle proprie condizioni di vita indotto proprio dal contesto pandemico. In ogni caso resta il fatto che all’estensione dello smart working è corrisposto un fenomeno di dimissioni volontarie dal lavoro, a cui devono essere associate anche quelle diffuse condizioni di disagio che, pur non essendo sfociate nelle dimissioni, hanno caratterizzato il passaggio a tale regime lavorativo. Altrettanto significativo è il fatto che al fenomeno delle dimissioni volontarie sia corrisposto un problema di sicurezza informatica, con ingenti dati che, riposti per necessità nel lavoratore connesso, sono stati oggetto di riappropriazione da parte del lavoratore e di suo utilizzo ad altri fini.

Ma al di là del fenomeno specifico è fuori dubbio che la consapevolezza o, quantomeno, la percezione, che la propria vita è oramai occupata, che la propria giornata non basta più, che i dispositivi di controllo e di estrazione dati sono oramai ossessivi e resi organici alla nostra esistenza, è sempre più diffusa e sempre più tenderà a diffondersi nella transizione eco-digitale. Si tratta di un contesto che offre potenzialità inedite alla pratica del rifiuto del lavoro, ovvero alla pratica del rifiuto dell’organizzazione capitalistica del lavoro. Riduzione dell’orario del lavoro contrattualizzato e riconoscimento in termini reddituali della giornata biolavorativa costituiscono una concreta estrinsecazione della pratica del rifiuto del lavoro e dei percorsi di ricomposizione. Ma è proprio la crisi climatica-ambientale e l’urgenza con cui essa si pone che offre contenuti e prospettive nuovi alla pratica del rifiuto del lavoro. Non esiste via d’uscita dalla crisi climatico-ambientale che non passi attraverso l’attacco al paradigma della crescita capitalistica, ma non esiste una realistica prospettiva di attacco al paradigma della crescita capitalistica senza una declinazione del rifiuto del lavoro che in primo luogo rivendichi l’autonomizzazione da essa del reddito e delle risorse. Attaccare il paradigma della crescita capitalistica significa aggredire l’attuale organizzazione del lavoro in cui essa si radica, il che implica, prima di ogni altra cosa, che il lavoro sia riconosciuto per quello che esso oggi è effettivamente e, quindi, pagato e associato ad una nuova ed espansiva sfera di diritti. Dentro la crisi climatico-ambientale si creano le condizioni straordinarie per restituire alla pratica del rifiuto del lavoro una portata strategica perché in essa è possibile fondere i percorsi di liberazione con la necessità urgente di salvare il mondo dal baratro. E’ proprio questa sua caratteristica, questo coniugio inscindibile tra libertà e sopravvivenza che la rendono insussumibile alla propaganda ed ai processi della transizione eco-digitale, e strumento efficace di ricostruzione degli spazi di una conflittualità autonoma e progettuale. E, a ben vedere, è sempre l’intreccio indistricabile tra libertà e sopravvivenza a restituire pienamente e con rinnovata potenza alla lotta di una parte, cioè alla lotta di classe, quella finalizzazione generale che fin dagli albori del pensiero rivoluzionario in essa è stato ricercato e ad essa è stato attribuito.

La transizione eco-digitale è un contesto di per sé in movimento. Al suo interno si muovono interessi enormi e si sviluppano strategie di ridefinizione globale, in grado di mettere in campo operazioni di ampio respiro per riuscire a sussumere, sovrascrivere o neutralizzare pensieri e pratiche divergenti. Per agire dentro la transizione eco-digitale è necessario provare a ricostruire una visione strategica, capace di restituire l’individuabilità di una progettualità ed il senso di appartenenza ad un percorso comune. E’ vero che evocare una possibilità è facile, mentre realizzarla è tutt’altra cosa. Ma è anche vero che un discorso che non inizia è un discorso che non è mai esistito. Facciamo esistere i discorsi e cerchiamo di far vivere il confronto perché è dentro il confronto che, almeno qualche volta, si generano le possibilità e le evocazioni possono trasformarsi in percorsi concreti.

Centri Sociali Marche

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